Salta al contenuto principale

Laudatio della prof.ssa Luisella Battaglia

prof.ssa Luisella Battaglia

Il conferimento della laurea Honoris Causa in Scienze Pedagogiche a un medico e scienziato umanista come Umberto Veronesi, oltre a riconoscere l'importanza dell'incontro tra pedagogia e medicina - un tema classico, oggi rinnovato dalle crescenti sfide poste dall'avvento delle biotecnologie e dal loro impatto sulla vita umana, - "testimonia il rilievo conferito nella sua opera e nella sua vita agli aspetti specificamente formativi ed educativi della professione medica. Basti ricordare la creazione della Scuola Europea di Oncologia e la decisione di istituire, come ministro della Salute, la Formazione medica continua obbligatoria. Veronesi si è più volte dichiarato convinto che la medicina è formazione continua perché è una scienza in costante divenire e perché fa parte dell’essere medico l’attitudine all’aggiornamento, sia dal punto di vista tecnicoprofessionale che umano. Se parliamo di vocazione pedagogica del medico dobbiamo però sgombrare subito il campo da un equivoco: non si tratta in alcun modo di un ritorno a quella visione paternalistica contro cui Veronesi ha sempre combattuto in nome del diritto di autodeterminazione del malato, una conquista recente e, nel nostro paese, non ancora consolidata. Occorre passare dall'"inganno caritatevole" al consenso informato, da intendersi come fase finale di un processo nato da un buon rapporto di comunicazione tra medico e paziente che richiede la capacità del primo di comprendere i tempi di cui il malato ha bisogno per "assimilare" la diagnosi, di individuarne i meccanismi di difesa e di adattamento e di percepire la reale volontà del paziente, specie quando vi sia il pericolo di ledere l’individualità della persona, in modo che possa partecipare consapevolmente alle scelte terapeutiche. L'impegno pedagogico è dunque diretto a creare una "relazione olistica" in cui il medico tenga conto della globalità della persona che ha di fronte e del suo modo peculiare di vivere la malattia, con un preciso richiamo alla dimensione soggettiva della sofferenza. È quello che Veronesi chiama "modello condiviso" e che significa non solo scegliere insieme le terapie da seguire ma anche condividere le gioie e i dolori che fanno parte del percorso della cura. Viene in tal modo affermata la struttura relazionale dell’atto medico il cui nucleo etico è costituito – come ci insegna Paul Ricoeur – dal "patto di fiducia" che impegna 'quel' paziente e 'quel' medico, vincolando entrambe le parti in una sorta di alleanza contro il nemico comune: la malattia. Mi sembra particolarmente significativo che i tre precetti indicati da Ricoeur come costitutivi della forte connotazione etica del 'patto di cura' - il riconoscimento del carattere singolare della persona del paziente, l'indivisibilità della persona considerata nella sua integralità psico-fisica, la 'stima di sé' e quindi il riconoscimento del proprio valore e della propria dignità da parte del paziente contro il pericolo ricorrente della regressione e della infantilizzazione – trovino una piena corrispondenza nel modello seguito da Veronesi nell’arco della sua attività. Mi riferisco qui in particolare all’impegno profuso dalla Fondazione da lui creata per dare concreta sostanza a quel patto e per promuovere gli strumenti indispensabili per sostenere i diritti fondamentali del cittadino nel campo della salute, contro la concezione confessionale della politica e la ricorrente tentazione dello stato etico.
Ne sono esempio le pubblicazioni che, con cadenza annuale, dal 2005 animano il dibattito sulle questioni bioetiche più cruciali, a partire dalla fecondazione assistita e dalla controversa legge 40.
La libertà riproduttiva viene riaffermata come parte ineliminabile dei diritti della persona nel suo necessario riferimento a quel principio di responsabilità individuale che è caratteristica fondamentale di tutte le civiltà democratiche. Ma anche il morire – si ricorda nel testo dedicato al testamento biologico – fa parte di un corpus fondamentale di diritti individuali: le dichiarazioni anticipate di trattamento costituiscono, pertanto, un efficace strumento teso a rafforzare l’autonomia della persona e a promuoverne la responsabilità decisionale. Nel quadro della difesa del principio di autodeterminazione si collocano anche testi come Nessuno deve scegliere per noi e La parola al paziente che, già nell’icasticità dei titoli, sottolineano il valore del consenso informato come conquista civile nel segno di una rigorosa laicità, propria di una bioetica liberale.
Il cambiamento nella cultura medica - a parere di Veronesi - deve essere radicale per recuperare, paradossalmente, il suo spirito originario. "Duemila anni fa, il medico si occupava dell’insieme dalla persona. Oggi e negli anni a venire, non potrà che ritornare ad essere così". Tale proposta ha trovato concreta attuazione non solo nel modello del 'consenso condiviso' - che si fonda sul riconoscimento sia dell’importanza del rapporto soggettivo medico-paziente, di fronte alla massificazione ospedaliera, sia della dignità di persona in ogni malato, con la relativa esigenza di dare risposte integrate ai suoi bisogni,- ma soprattutto nelle sue iniziative, nei progetti intesi a realizzare tale obiettivo. La vocazione pedagogica si è così tradotta in una nuova cultura della malattia che lo ha visto protagonista della lotta contro il male fisico per antonomasia, il cancro.
La consapevolezza e la partecipazione hanno sostituito la negazione e la rimozione, innescando un meccanismo virtuoso nelle terapie e incoraggiandole a varcare nuove frontiere. Per i tumori al seno, ad esempio, si sono trovate tecniche conservative - come la quadrectomia - che evitassero, ove possibile, la mutilazione. È ancora Veronesi a dichiarare che mai avrebbe potuto pensare di osare l'abbandono della rimozione totale del seno malato se non gliel'avessero chiesto donne con tumori molto piccoli, in nome della loro vita e della loro bellezza.
L'attenzione al mondo femminile lo ha condotto sia a concepire una medicina 'su misura' per le donne sia a valorizzare il loro ruolo in un progetto di società che assegni un ruolo centrale alla prevenzione: le donne – ha scritto Veronesi, in significativa consonanza con la prospettiva del premio Nobel Amartya Sen - sono le migliori alleate dei medici, il crocevia da cui passa la salute di tutta la famiglia, bambini, mariti, parenti, anziani. Altrettanto importante è il loro ruolo nella ricerca, contrastato purtroppo dalla presenza di un perdurante 'maschilismo scientifico' che mantiene ancora forte il livello di discriminazione e fa sì che il divario tra i sessi divenga sempre più ampio, man mano che si sale nella scala gerarchica. Come utilizzare per il bene di tutto il paese - si è chiesto Veronesi - uno straordinario patrimonio di menti femminili? L'associazione italiana ricerca sul cancro (AIRC) , ad esempio, ha inserito nei bandi di concorso una particolare policy che giustifica assenze dovute a cure parentali prolungate e, nel giudicare i progetti da finanziare, tiene conto anche degli anni dedicati dalle ricercatrici alla maternità e alla cura dei figli, permettendo così alle mamme-scienziate di mantenersi al passo con gli uomini. Come si vede, siamo in presenza di iniziative assai concrete che testimoniano, ancora una volta, un intento in senso lato 'pedagogico': la dichiarata volontà di superare atavici pregiudizi che consentano, secondo l'auspicio di Veronesi, di aprire "l'era della donna".
Una conquista civile non meno significativa è la lotta contro il dolore che, per antichi retaggi culturali, era ritenuto quasi una necessità insita nella malattia o addirittura giustificato in nome di una sorta di mistica ‘dolorista’ ma che ora è sempre più efficacemente combattuto grazie alla legge da lui introdotta, come ministro della Sanità, per facilitare la prescrizione e l’uso degli oppiacei per i malati terminali. Occorre a tale riguardo sottolineare che se la bioetica ha rappresentato il sorgere della 'rivoluzione liberale' in medicina, colla sua affermazione della centralità e dell'autonomia della persona, ha attivato altresì processi educativi che hanno messo in grado un numero crescente di persone di avere un maggiore controllo sulla propria salute e anche di migliorarla, grazie all'adozione di appropriati stili di vita e di forme di prevenzione primaria e secondaria. Anche su questo piano, Veronesi è stato lungimirante.
Educare è liberare dalla paura, favorire processi di crescita: a questa istanza ha risposto la creazione dello 'sportello cancro', un servizio di orientamento per i malati e le loro famiglie in grado di fornire informazioni sugli studi in corso, sulle terapie innovative ma insieme uno strumento di educazione dei medici e degli operatori sanitari, chiamati a confrontarsi con i bisogni effettivi dei pazienti e la loro realtà. Non ci si può illudere che la relazione di fiducia possa conseguirsi solo fissando alcune regole o definendo obblighi cui ottemperare giacché si tratta di acquisire capacità e pratiche di condotta in certo modo esemplari. Educare, dunque, a sviluppare una disponibilità all'ascolto, a ricercare la miglior comprensione dell’altro. Non si tratta infatti unicamente di informare ma di trovare il modo migliore di comunicare, tenendo conto della differenza delle situazioni ed esperienze esistenziali dei malati. È quella che si potrebbe chiamare la 'parte sommersa del consenso', che non si vede ma che conta di più: il mondo della vita. Ne deriva una concezione della bioetica che oltre a proporsi - lo si è visto - come 'pedagogia allargata', riesce a tenere insieme felicemente il paradigma liberale dei diritti col paradigma solidaristico della 'cura', due prospettive considerate, secondo una visione stereotipata, quasi antinomiche. Veronesi ci ha dimostrato, invece, che non solo è possibile, ma è anzi doveroso e necessario 'prendersi cura' dei pazienti, manifestando un interesse personale e affettivo per il loro benessere, sostenendo una vulnerabilità resa più acuta dalla malattia e, contemporaneamente, difendere i loro diritti, rafforzando – grazie anche al ruolo attivo dei medici e degli operatori sanitari - la loro autonomia e la loro capacità di assumere decisioni responsabili.
Se informare è il primo atto della cura, occorre passare dall’informazione a un'educazione terapeutica che renda i malati partner competenti e collaboratori consapevoli. Una chimera, un modello seducente ma irraggiungibile? Veronesi ha testimoniato con la sua opera e la sua stessa vita che è possibile coniugare l’eccellenza scientifica e l’abilità clinica con capacità comunicative e virtù umanistiche. Certo, l’appello alla umanizzazione della medicina rischia spesso oggi di apparire retorico ma esso indica, non dimentichiamolo, l’emergere di un forte bisogno di 'humanitas' all'interno della sanità: questo bisogno è urgente e assoluto e, se si nutre di fatti e non di parole, se si traduce in opere e iniziative concrete, è l’impegno serio a cui tutti - medici, operatori sanitari e cittadini - sono chiamati.

Luisella Battaglia


Ultimo aggiornamento 25/03/2019