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Laudatio del Prof. Giovanni B. Pittaluga

Giobanni Pittaluga

Joseph Stiglitz è nato il 5 febbraio 1943 a Gary, nello stato dell’Indiana. Dal 1960 al 1963 ha studiato all’Ammerst College. Al quarto anno di università si è trasferito al MIT dove ha conseguito la laurea e nel 1967 il Ph.D. in economia.
Grazie a una borsa Fulbright tra il 1965 e il 1966 ha completato i suoi studi presso l’Università di Cambridge (UK), avendo come tutor, dapprima Joan Robinson e, poi, Frank Hahn.
Negli anni successivi ha insegnato in diverse università americane, tra cui Princeton, Stanford e MIT.
Oltre che aver dato un contributo rilevante alla teoria economica, Stiglitz ha ricoperto importanti incarichi nell’ambito della politica economica.
Nel 1993, infatti, è stato nominato membro del CEA (Council of Economic Advisers) del Presidente Clinton. In seguito, nel 1995, ne è diventato Presidente.

Nel 1997 ha lasciato l’incarico presso la Casa Bianca per diventare Senior Vice-President e Capo Economista della Banca Mondiale. Svolgendo queste sue funzioni Stiglitz ha avuto modo più volte di assumere posizioni contrarie alle scelte fatte dal FMI in corrispondenza della crisi finanziaria del Sud Est Asiatico e più in genere rispetto alle politiche verso i Paesi emergenti adottate dalle grandi istituzioni internazionali.
A seguito di ciò emersero gravi conflitti con il Segretario del Tesoro americano del tempo, Larry Summers. Nel 2000 Stiglitz ha dato le dimissioni dalla Banca Mondiale e è tornato ad insegnare prima alla Università di Stanford e poi alla Columbia University di New York, dove insegna tuttora.
Nel 2001 Stiglitz è stato insignito del premio Nobel per l’economia insieme ai Professori Akerlof e Spence per gli sviluppi dell’“economia dell’informazione”.A questi tre economisti è stato riconosciuto di aver rivestito un ruolo cruciale nello studio degli effetti economici dell’esistenza di asimmetrie informative, vale a dire di una imperfetta distribuzione delle informazioni tra i vari soggetti. Nella maggior parte delle circostanze le controparti dello scambio economico hanno una diversa disponibilità di informazioni in merito ai beni o servizi scambiati. Ad esempio, in campo assicurativo gli assicuratori sanno che vi sono rischi di grado diverso, ma non conoscono ex ante la distribuzione di questi rischi tra i soggetti assicurati. Problemi analoghi si trovano in altri mercati, come in quello dei prestiti bancari e in quello del lavoro.
Lo screening tra individui con caratteristiche diverse, ad esempio con diversi livelli di rischiosità, può avvenire, oltre che sulla base di caratteristiche oggettive (sesso, età, professione, ecc.), sulla base del comportamento tenuto dai soggetti in relazione ai diversi livelli di prezzo.
In un contributo seminale Stiglitz ha dimostrato che in corrispondenza di tassi di interesse sui prestiti più elevati, la struttura dei prenditori di fondi di una banca diventa più rischiosa: infatti, solo le imprese che si aspettano di conseguire una redditività elevata a fronte di un alto rischio di fallimento accetteranno gli alti tassi di interesse pretesi dalla banca.
Un processo analogo si verifica nel mercato assicurativo. Infatti, in corrispondenza di un innalzamento dei premi si determina un processo. A seguito di ciò emersero gravi conflitti con il Segretario del Tesoro americano del tempo, Larry Summers. Nel 2000 Stiglitz ha dato le dimissioni dalla Banca Mondiale e è tornato ad insegnare prima alla Università di Stanford e poi alla Columbia University di New York, dove insegna tuttora.

Nel 2001 Stiglitz è stato insignito del premio Nobel per l’economia insieme ad Akerlof e Spence. A questi tre economisti è stato riconosciuto di aver rivestito un ruolo cruciale nello studio degli effetti economici dell’esistenza di asimmetrie informative, vale a dire di una imperfetta distribuzione delle informazioni tra i vari soggetti.Nella maggior parte delle circostanze le controparti dello scambio economico hanno una diversa disponibilità di informazioni in merito ai beni o servizi scambiati. Ad esempio, in campo assicurativo gli assicuratori sanno che vi sono rischi di grado diverso, ma non conoscono ex ante la distribuzione di questi rischi tra i soggetti assicurati. Problemi analoghi si trovano in altri mercati, come in quello dei prestiti bancari e in quello del lavoro.

Lo screening tra individui con caratteristiche diverse, ad esempio con diversi livelli di rischiosità, può avvenire, oltre che sulla base di caratteristiche oggettive (sesso, età, professione, ecc.), sulla base del comportamento tenuto dai soggetti in relazione ai diversi livelli di prezzo.
In un contributo seminale Stiglitz ha dimostrato che in corrispondenza di tassi di interesse sui prestiti più elevati, la struttura dei prenditori di fondi di una banca diventa più rischiosa: infatti, solo le imprese che si aspettano di conseguire una redditività elevata a fronte di un alto rischio di fallimento accetteranno gli alti tassi di interesse pretesi dalla banca. Un processo analogo si verifica nel mercato assicurativo. Infatti, in corrispondenza di un innalzamento dei premi si determina un processo con un’imperfetta distribuzione delle informazioni, ovvero di asimmetrie informative nel mercato del lavoro. In particolare, la teoria della efficiency wage argomenta che la produttività dei lavoratori è tanto più elevata quanto più elevati sono i salari: ciò sia perché i lavoratori a fronte di salari più elevati tendono a sforzarsi di più sia perché le imprese attraggono forza lavoro di qualità più elevata. Se l’informazione sulla produttività dei lavoratori non fosse costosa, gli imprenditori pagherebbero un salario uguale alla produttività marginale. Tuttavia, dato che esistono costi di informazione, le imprese, pagando salari più elevati di quelli compatibili con la piena occupazione, incentivano i lavoratori a non abbandonare l’impresa o a disimpegnarsi.

Alla teoria della wage efficiency Stiglitz ha contribuito con diversi lavori, a cominciare da un importante lavoro scritto con Shapiro nel 1984. La teoria economica tradizionale, partendo dall’assunto che la mano invisibile di Smith consente di per sé una efficiente allocazione delle risorse incontra difficoltà a spiegare le fluttuazioni cicliche dell’economia. Queste ultime nell’ambito di questa teoria sono ricondotte esclusivamente a fattori esogeni, in passato principalmente a shock monetari, negli anni più recenti a shock tecnologici. L’economia dell’informazione permette di dare una spiegazione endogena delle fluttuazioni cicliche. Queste ultime secondo Stiglitz sono principalmente riconducibili all’imperfetto funzionamento del mercato dei capitali e del mercato del credito. L’esperienza storica mostra che solo una percentuale molto bassa dei nuovi investimenti è finanziata con l’emissione di azioni. L’economia dell’informazione riconduce questo dato di fatto a due ragioni principali.
In primo luogo, i potenziali acquirenti di azioni sanno che gli azionisti esistenti sanno molto più di loro in merito al valore effettivo dell’impresa e che sono incentivati a emettere nuove azioni quando queste sono sopravalutate. Essi, pertanto, sono poco propensi ad acquistare tali titoli.
In secondo luogo, data l’esistenza di asimmetrie informative tra azionisti e manager, i primi sono indotti ad espandere il finanziamento attraverso debito. Quest’ultimo, infatti, limita il l’ammontare di risorse finanziarie a disposizione dei manager, costretti peraltro a conseguire un margine di profitto almeno pari al servizio del debito.
Il fatto che le imprese abbiano un difficile accesso al mercato dei capitali implica che esse, se vogliono finanziare nuovi investimenti, debbano rivolgersi prevalentemente al mercato del credito e in particolare alle banche.
La stretta dipendenza delle imprese dalle banche ha due conseguenze principali.
Da un lato, le imprese, temendo di non riuscire a ripagare i debiti bancari e di far bancarotta, sono avverse al rischio. Poiché nelle fasi recessive o in corrispondenza di altri shock negativi (quali, ad esempio, una diminuzione dei prezzi delle esportazioni) i margini di profitto diminuiscono e il rischio di bancarotta aumenta, le imprese tendono a ridurre la produzione. La curva dell’offerta aggregata si sposta a sinistra, interviene una caduta dell’output e del livello dell’occupazione. Dall’altro lato, anche la propensione delle banche a erogare credito cambia in relazione al contesto. Allorché i margini di profitto delle imprese si riducono o aumenta la rischiosità attesa dei prestiti, le banche tendono a ricorrere a forme di razionamento del credito. Le imprese ricevono un minor ammontare di finanziamenti esterni: anche per questa via l’output e l’occupazione si riducono.
È indubbio che l’economia dell’informazione e in particolare i contributi di Stiglitz abbiano contribuito a una diversa interpretazione del pensiero keynesiano.
Nell’interpretazione tradizionale l’incapacità delle forze di mercato di ristabilire una situazione di piena occupazione delle risorse, quando da essa il sistema si sia allontanato, dipende dall’esistenza di rigidità dei prezzi e dei salari: in sostanza, data l’assenza di prezzi perfettamente flessibili, il ristabilimento di una situazione di equilibrio avviene sul lato della quantità. Più precisamente diminuisce la domanda di lavoro delle imprese e a seguito di ciò il reddito e la domanda aggregata. Per contro nell’interpretazione della dottrina keynesiana data dagli economisti dell’informazione e in primis da Stiglitz, le fluttuazioni cicliche vengono a dipendere in via principale non tanto da una caduta della domanda aggregata, quanto piuttosto da una diminuzione dell’offerta aggregata. Un aumento del grado di incertezza tende a peggiorare l’accesso al finanziamento esterno delle imprese e conduce ad una diminuzione dell’output.
È evidente che l’approccio di Stiglitz e degli economisti dell’informazione ha inevitabili implicazioni di politica economica. Come tutti gli approcci di natura keynesiana, esso induce a ritenere che lo Stato abbia un ruolo cruciale nel consentire il conseguimento del pieno impiego delle risorse, in particolare del lavoro: il mercato da solo non garantisce sempre e comunque il raggiungimento della piena occupazione.
Tuttavia, mentre l’interpretazione tradizionale di Keynes basata sull’esistenza di rigidità nominali, in particolare le sue versioni recenti, quali la teoria dei menu cost, ritengono auspicabili misure volte a accrescere la flessibilità di prezzi e salari, l’economia dell’informazione guarda a misure di questo tipo in modo problematico.
Infatti, una più elevata flessibilità dei prezzi nel rendere più ampi i trasferimenti di reddito e ricchezza conseguenti ad uno shock può amplificare gli shock macroeconomici, approfondendo le fasi recessive.
Da questa considerazione si comprende come l’economia dell’informazione, e in particolare i contributi di Stiglitz, consentano di meglio precisare il ruolo dello Stato nell’economia.

Misure di politica fiscale espansive e bassi tassi di interesse consentono alle imprese di sopportare rischi più elevati e, dunque, di espandere la produzione, riducendo il tasso di disoccupazione.
Queste raccomandazioni di politica economica si scontrano evidentemente con le ricette imposte dal FMI ai Paesi emergenti interessati da crisi finanziarie.
Nel libro “La globalizzazione e i suoi oppositori” Stiglitz è particolarmente critico verso la gestione da parte del FMI delle recenti crisi finanziarie, in particolare della crisi finanziaria dei Paesi del Sud Est asiatico di fine anni ’90.
Come noto, il FMI raccomandò ai Paesi coinvolti nella crisi severe politiche fiscali e tassi di interesse elevati. Tali misure, a parere di Stiglitz, ebbero due effetti negativi. Da un lato, esse aggravarono la recessione nei Paesi in cui furono applicate, dall’altro lato, favorirono forme di contagio simili alle politiche di beggar thy neighbour poste in atto dalla gran parte dei Paesi negli anni Trenta: infatti, nel Sud Est asiatico, seguendo le raccomandazioni del FMI, ogni Paese contrasse la domanda interna di consumi e, quindi, anche le importazioni dai Paesi vicini, con evidenti ripercussioni restrittive anche su questi. Di qui un approfondimento della recessione e rilevanti fenomeni di contagio.
L’infelice gestione della crisi del Sud-Est asiatico da parte del FMI si inserisce nel contesto più ampio di una politica di sostegno allo sviluppo di questa istituzione assolutamente inadeguata. Scrive Stiglitz (2002; p. 16): “… Il FMI ha commesso errori in tutti i campi in cui ha operato: sviluppo, gestione delle crisi e transizione delle economie nazionali dal comunismo al capitalismo. I programmi di adeguamento strutturale non hanno recato benefici neppure a quei Paesi che, come la Bolivia, si sono sottoposti alle sue limitazioni; in molti Paesi, l’eccessiva austerità ha soffocato la crescita …”. La fonte degli errori del FMI viene ricondotta da Stiglitz all’applicazione di teorie economiche sbagliate, fondate sul cosiddetto Washington Consensus.
Quest’ultimo “suggerisce” ai Paesi emergenti non solo l’adozione di politiche fiscali e monetarie virtuose, volte cioè a tutelare l’equilibrio di bilancio e la stabilità dei prezzi, ma anche l’attuazione di riforme strutturali che prevedono la liberalizzazione dei movimenti dei capitali, ampi processi di privatizzazione delle imprese e la deregolamentazione dei sistemi finanziari.
Si tratta di riforme che comportano una drastica riduzione del ruolo dello Stato nel governo dell’economia e dello sviluppo. Per Stiglitz in Paesi emergenti o in transizione l’acquisizione di un ruolo crescente dei mercati e la corrispondente riduzione di peso dello Stato non possono essere immediate (come voluto dal FMI), ma devono essere graduali.
L’approccio gradualistico è suggerito da diverse considerazioni. Innanzittutto, va tenuto conto che in presenza di imperfezioni informative la storia e le istituzioni contano, condizionando il comportamento degli individui. Ciò implica che determinate riforme presuppongono una trasformazione della società e delle sue istituzioni: le ricette di politica economica in senso lato non possono non tenere conto del contesto politico e sociale.
Il fallimento o per lo meno gli elevati costi della transizione dal comunismo al capitalismo di molti Paesi sono ricondotti da Stiglitz al fatto che i fondamentalisti del mercato tendono ad ignorare il ruolo delle istituzioni.
Così in Russia la liberalizzazione dei prezzi dalla sera alla mattina ha determinato un’inflazione che ha falcidiato i risparmi e determinato instabilità sociale. Analogamente, sempre in Russia, il processo di privatizzazioni radicali in assenza di adeguate istituzioni (soprattutto in tema di corporate governance) ha condotto a numerosi fallimenti di imprese e alla concentrazione della proprietà di quelle esistenti nelle mani di pochi.
L’insuccesso delle riforme suggerite dal FMI ha determinato nei Paesi ex comunisti un aumento contestuale della povertà e della disuguaglianza. Scrive Stiglitz (2002; p.140): “… I vecchi manuali parlano spesso dell’economia di mercato come se fosse costituita da tre ingredienti essenziali: prezzi, proprietà privata e profitti … Ma da tempo è stata anche riconosciuta l’importanza delle istituzioni. È essenziale che esistano dei sistemi di riferimento giuridici e normativi in grado di garantire che i contratti vengano rispettati, che le vertenze commerciali vengano risolte in maniera ordinata, che i mutuatari impossibilitati a restituire quanto dovuto siano sottoposti a procedimenti fallimentari regolamentati, che la concorrenza sia salvaguardata e che le banche che raccolgono depositi siano in grado di restituirli quando i depositanti li richiedono ….”. Lo Stato può esercitare un ruolo rilevante nella creazione di quelle istituzioni necessarie al pieno funzionamento di un’economia di mercato. Emblematico è il caso dei sistemi finanziari di molti Paesi, il cui sviluppo è dipeso dall’intervento dello Stato sia nella creazione di mercati e intermediari sia nella loro regolamentazione. Lo sviluppo dell’economia, tuttavia, non dipende solo dall’esistenza di solide istituzioni, ma anche da un’elevata coesione sociale. La storia dei Paesi asiatici mostra che, contrariamente a quanto sostenuto da Kaldor (1963) e Kuznets (1955), un’elevata crescita economica può accompagnarsi a una diminuzione delle disparità reddituali.
Lo Stato può contribuire a quest’ultima rendendo meno diseguale la distribuzione del reddito attraverso l’imposizione fiscale.
Nella teoria economica tradizionale equità ed efficienza sono separate: l’efficienza allocativa è l’esito delle forze di mercato, l’equità di giudizi di valore. Il Secondo Teorema dell’economia del benessere mostra che, se la distribuzione esistente del reddito fosse ritenuta iniqua, basterebbe ridistribuire le dotazioni iniziali, dopodiché il mercato assicurerebbe comunque un’allocazione efficiente.
Nella teoria di Stiglitz distribuzione del reddito e allocazione delle risorse non possono essere considerate separatamente.
Infatti, nel contesto di informazioni imperfette differenti strutture distributive danno luogo a forme di incentivazioni differenti: “ … in economie in cui la ricchezza è distribuita in maniera molto diseguale ci possono essere seri problemi legati agli incentivi: la mezzadria può essere un sistema agricolo efficiente, data la grande concentrazione della proprietà terriera, ma il prodotto nazionale aumenterebbe se i lavoratori ricevessero tutto il loro prodotto marginale, invece che la metà o i due terzi …”.
Il problema del ruolo dello Stato nell’economia è stato affrontato in più occasioni da Stiglitz. In particolare, egli in un contributo fondamentale scritto assieme a Greenwald ha dimostrato che ogni qualvolta vi sono imperfezioni informative o mercati incompleti l’economia di mercato non è Pareto-efficiente: si ha cioè un fallimento del mercato.
La frequente ricorrenza di condizioni di informazione imperfetta rende le situazioni di fallimento di mercato assai più pervasive che nella teoria economica tradizionale dove i fallimenti di mercato sono limitati ai costi di esternalità, ai beni pubblici e al monopolio.
Scrive Stiglitz (1992): “… Mentre la letteratura tradizionale considera i fallimenti dell’economia di mercato come delle eccezioni alla regola generale che le economie decentralizzate portano ad un’allocazione efficiente delle risorse, in questo nuovo approccio accade esattamente il contrario: è solo in circostanze eccezionali che il mercato è efficiente …”. L’esistenza di informazioni imperfette, peraltro, tende a infirmare il teorema di Coase, secondo cui gli individui possono organizzarsi in modo volontario per risolvere le inefficienze del mercato senza che sia necessario un intervento statale.
Secondo Coase, infatti, se un’impresa inquina, vale a dire determina un’esternalità negativa, il danneggiante e i danneggiati potrebbero negoziare forme di compensazione monetaria. Tuttavia, in presenza di una distribuzione imperfetta delle informazioni, da un lato, potranno darsi forme di free riding che invalidano lo scambio, dall’altro lato, data la diversità delle informazioni e preferenze degli individui le soluzioni negoziali à la Coase risulteranno inefficienti.
Ma per quale ragione lo Stato dovrebbe consentire di migliorare l’efficienza allocativa delle risorse meglio delle organizzazioni economiche private? Stiglitz mostra che rispetto a queste ultime lo Stato è un’organizzazione peculiare: infatti, esso “… è l’unica organizzazione l’appartenenza alla quale sia universale e … ha un potere coercitivo non concesso a nessun’altra organizzazione economica …”. Universalità e potere coercitivo sono due caratteristiche complementari. La prima implica che i cittadini non possono esercitare rispetto allo Stato quella che Hirshman (1982) definisce l’opzione di uscita. Ognuno di noi può scegliere di lavorare in un’impresa piuttosto che un’altra, di comprare un bene o un servizio da un’impresa piuttosto che da un’altra, ma la scelta di uscire da uno Stato è assai più difficile e costosa. Proprio la caratteristica di universalità dà allo Stato un potere coercitivo che non possiede alcun’altra organizzazione economica.
Le peculiarità dello Stato conferiscono ad esso una posizione di vantaggio nella correzione dei fallimenti di mercato. Si pensi, ad esempio, al caso in cui si accerti che il fumo è dannoso alla salute dei cittadini, anche dei fumatori passivi. Nessuna assicurazione privata potrebbe coprire rischi di questo tipo. Lo Stato, invece, può intervenire applicando tasse sulla produzione di sigarette e disincentivando così il fumo. Analogamente, il potere di proibire consente allo Stato di regolamentare l’accesso al mercato delle imprese, influendo sul buon funzionamento dei medesimi.
Queste e altre considerazioni consentono a Stiglitz di affermare che: “…La tesi dei conservatori che l’intervento dello Stato sia sempre e comunque negativo per il benessere, che i governi siano per loro natura spreconi, e che ogni tentativo di ridistribuire la ricchezza non faccia altro che dar vita ad attività di perseguimento delle rendite, mi paiono sia sbagliate che inutili”.
I governi devono intervenire quando i mercati falliscono nel compito di soddisfare i bisogni sociali, e il ruolo degli economisti consiste nel guidare i governanti nel compito di discernere in quali casi e con quali modalità l’intervento dello Stato ha maggiori possibilità di essere utile …”.
Tali modalità possono assumere la forma di tasse e sussidi, di regolamentazioni e legislazioni e la fornitura o, addirittura, la produzione diretta di beni e servizi. In merito a quest’ultimo aspetto, in un noto contributo con Sappington, Stiglitz mostra le condizioni in cui è economicamente conveniente la produzione privata anziché pubblica. Pur attribuendo un ruolo cruciale all’intervento dello Stato nell’economia, Stiglitz non trascura di analizzare le possibili forme di fallimento dello Stato, quali sprechi e inefficienze dell’amministrazione pubblica. Si pensi agli errori dell’amministrazione pubblica, ai suoi sprechi, ai suoi ritardi. Allo scopo di attenuare queste situazioni di inefficienza Stiglitz (1998a) ritiene si possa ricorrere a meccanismi di incentivo utilizzati dal settore privato. Ad esempio, può usare gare per procurarsi beni e servizi o allocare risorse pubbliche; può esternalizzare parti della sua attività; può ricorrere a contratti che tengono in conto le performance, ecc..
L’intervento dello Stato nell’economia pone, tuttavia, il problema delle garanzie che tale intervento sia condotto nel pubblico interesse. A questo aspetto Stiglitz ha dedicato ampio spazio, ed è questo uno degli anelli di congiunzione tra la sua teoria economica e il suo impegno politico.
Egli prima di tutto si focalizza sui processi decisionali nell’azione di governo, mostrandosi preoccupato delle capacità dei gruppi di interesse più influenti di piegare le scelte politiche a loro favore.
Allo scopo di attenuare le pressioni sul governo da parte di determinati gruppi di interesse Stiglitz suggerisce una articolata serie di misure. Tra queste ultime un ruolo cruciale riveste quella di ridurre e, se possibile, eliminare il grado di “segretezza” del processo decisionale.
In primo luogo, un’accresciuta trasparenza delle decisioni accresce i costi delle pressioni dei gruppi di interesse.
In secondo luogo, la trasparenza consente di meglio valutare il comportamento e la performance dei burocrati.
In terzo luogo, la segretezza favorisce l’insorgere di rendite a favore dei meglio informati.
L’apertura delle istituzioni ai cittadini non deve solo tradursi in una elevata trasparenza dei processi delle decisioni politiche, ma deve anche comportare un alto grado di rappresentatività delle cosiddette magistrature indipendenti, come le banche centrali.
In un lavoro recente Stiglitz (1998b) ha criticato a fondo la posizione di quanti ritengono che la politica monetaria possa essere delegata ad una banca centrale del tutto indipendente dalla sfera politica. I riflessi delle scelte monetarie sulle variabili macroeconomiche, in particolare sull’output e sul tasso di disoccupazione, fanno sì che esse in una democrazia non possono essere sottratte al controllo degli organi elettivi, vale a dire del governo e del parlamento.
Scrive Stiglitz (1998; p. 19): “… Molti Paesi hanno costituito banche centrali indipendenti che sono solo vagamente responsabili verso gli organi elettivi. Il fatto che i politici siano giudicati in larga misura sulla base della performance dell’economia ha creato una situazione curiosa in cui i politici eletti, i rappresentanti del popolo, vengono a dipendere da esperti nominati in molti casi da amministrazioni precedenti e della cui qualità l’amministrazione in carica non può essere ritenuta responsabile …”. La gestione della politica monetaria presuppone la mediazione e la sintesi di interessi di gruppi sociali diversi. “… L’esistenza di queste forme di mediazione [tra gruppi sociali] rimette in discussione l’idea stessa di banca centrale indipendente – vale a dire non politica. Occorrerebbe almeno, in ogni caso, un meccanismo che garantisca si ascoltino le voci e gli interessi coinvolti. In Svezia, per esempio, il mondo del lavoro è rappresentato nella banca centrale. Negli Stati Uniti, il Board della Federal Riserve è un curioso miscuglio: esso è indipendente, ma è dominato dagli interessi finanziari e, in secondo luogo, da quelli delle imprese. La voce dei salari e quella dei consumatori non possono essere ascoltate …”. Di qui l’auspicio che nei board degli organi tecnici, delle cosiddette magistrature indipendenti, sia rispettato un adeguato principio di rappresentatività.
A conclusione di quanto esposto si può ritenere che Stiglitz, se, da un lato, attribuisce un ruolo cruciale all’intervento dello Stato nell’economia, dall’altro lato, appare preoccupato di rafforzare la democraticità del processo decisionale.
Tale preoccupazione emerge in tutta la sua forza quando egli accentra la sua attenzione sull’economia mondiale.
Stiglitz non condanna a priori la globalizzazione. “Di per sé, …[quest’ultima] non è né buona né cattiva. Ha il potere di fare miracoli e, per i Paesi dell’Est asiatico che l’hanno intrapresa alle loro condizioni e al loro ritmo, ha portato enormi vantaggi, malgrado la battuta d’arresto dovuta alla crisi del 1997, mentre in altre parti del mondo non ha portato gli stessi benefici. Per molti, sembra piuttosto un disastro completo. …”.
Ciò che preoccupa Stiglitz è il fatto che la globalizzazione si dispieghi in presenza di un diminuito ruolo degli Stati nazionali e di alcune organizzazioni internazionali, il FMI, la Banca Mondiale e il WTO, che dominano la scena, facendo gli interessi di alcuni Paesi, fondamentalmente i G-7 o meglio il G-1, e di alcuni, pochi, gruppi di interesse.
Dunque, è il cattivo governo della globalizzazione che tende a dar luogo ad una nuova forma di colonialismo economico.
Di qui l’esigenza di accrescere il grado di democraticità delle istituzioni internazionali e, quindi, la capacità di queste di operare interventi nell’interesse della comunità mondiale. In particolare Stiglitz auspica una profonda riforma del FMI e della Banca Mondiale che ne accresca il grado di accountability e preveda meccanismi di voto nel suo Board rispondenti al criterio una testa-un voto piuttosto che a quello vigente “un dollaro-un voto”.
Se si darà corso a questa riforma “… La globalizzazione [potrà] essere corretta e quando ciò [avverrà], quando cioè [verrà gestita] in modo equo e giusto, dando voce a tutti i Paesi coinvolti nelle politiche applicate [sarà] possibile che essa aiuti a creare una nuova economia globale in cui la crescita non sarà soltanto più sostenibile, ma anche più equamente distribuita …”.
In considerazione di quanto detto e in particolare del rilevante contributo alla cosiddetta “economia dell’informazione” che ha implicazioni straordinariamente importanti per lo sviluppo della ricerca nelle scienze sociali e politiche,la Facoltà di Scienze Politiche, unanime, ha proposto gli venga assegnata la laurea honoris causa in Scienze Internazionali e Diplomatiche.
Prego, pertanto, il Magnifico Rettore di procedere alla proclamazione della laurea per i poteri conferitigli dalla legge.

Giovanni B. Pittaluga


Ultimo aggiornamento 25/03/2019