Figli della Bice (o figli della Unige?)

Figli della Bice (o figli della Unige?)

C'è un filo rosso, parrebbe, che percorre i nobili androni dei palazzi nobiliari, degli edifici griffati e delle più e meno fastose sedi dell'Ateneo genovese. Un filo di speranza, certo, e anche di giovinezza. Una freschezza non sempre e necessariamente anagrafica, ché anzi, a guardare negli angoli, è più facile approssimare ai cinquanta che ai trenta, forse perché l'età non è poi solo e sempre portatrice di malattia e rincitrullimento. Ma anche di compassione, e pazienza, e tolleranza verso le grandi e piccole frustrazioni, aspirazioni ed ambizioni individuali; quelle passioni mai sopite, o del tutto sbocciate, che un colpo secco sopra il rullante, l'eccesso di una chitarra distorta, o la riconciliante bellezza di una voce ispirata molto spesso, per non dire invariabilmente, sanno d'un tratto riportare d'attualità.

Una delle magie del fare musica è del resto proprio la capacità, più o meno “organizzata”, di attualizzare emozioni e sentimenti; di far montare da dentro quello stato di grazia che ci isola e anestetizza dalle diavolerie del quotidiano e che ci riporta, per quanto possibile, ad un'infanzia perenne, o meglio a un'adolescenza da cui il passato non emerge come carcassa di ombre e fantasmi, ma come scatola magica ad uso e consumo di chi, alla fine della giornata, onestamente sudatosi la pagnotta, assecondata la moglie e prelevati i figli dalla piscina o dal tennis o dal campo di calcio, infila con goduta lentezza il jack dentro una di quelle scatole a valvole che da sessant'anni tolgono il sonno ai vicini, e con un montante senso di rivincita attacca Smoke on the Water, o Stairway to Heaven, o Samba pa ti.

C'è anche questo sentimento d'infantile e gioiosa trasgressione nell'offerta musicale dei Figli della Bice, band – ma sarebbe più corretto dire “complesso”, come usava negli anni Sessanta – genovese interamente formata da ex studenti dell'Ateneo: economisti, ingegneri, giornalisti, biologi ed umanisti, questi ultimi in lieve prevalenza, a testimonianza dei bei tempi in cui il pezzo di carta era sinonimo di emancipazione prima che di guadagno. Tempi che ritorneranno, chissà. Per loro – i Figli – potrebbe anche cascare il mondo. Basta che qualcuno li avverta. Non per altro, ma per salvare dalla catastrofe almeno gli oggetti di maggior pregio: un plettro sudato, una cinghia di cuoio. Un pettine. Feticci che i ragazzi di oggi potranno trovare su e-bay, o scambiarsi su qualche marketplace virtuale. Nel frattempo i Figli continuano a far musica, a divertirsi e a esibirsi. Nel nome del rock e di quella gioia di stare insieme che non fu mai materia d'insegnamento, ma che tutti abbiamo dovuto imparare, prima o poi.


Luca Morasso
Dipartimento di Ingegneria meccanica, energetica, gestionale e dei trasporti (DIME)
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